1992-2009 Una città senza memoria non ha futuro

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di Matteo d’Ingeo
l’Altramolfetta – Luglio 2009

Nell’agosto del 1992 per il trigesimo della morte di Gianni Carnicella, assassinato dal fucile a canne mozze di Cristoforo Brattoli, alcune associazioni, operatori del volontariato e movimenti politici firmarono un manifesto destinato a diventare un vero e proprio appello alla cittadinanza attiva.

Il testo del manifesto riportava queste parole:
“ … L’OMICIDIO DEL SINDACO CARNICELLA segna un livello, finora mai raggiunto, di degrado della convivenza civile nella nostra città. Di fronte a questo episodio il nostro primo atteggiamento è di sdegno e di dolore per la vita spezzata oltre che di piena solidarietà con chi più duramente da esso è stato colpito.
A ciò si unisce, forte, un lacerante bisogno di verità. Verità sull’accaduto ma soprattutto sul clima nel quale è maturato e sui meccanismi che lo hanno generato.
E’ ormai innegabile che a Molfetta siano sempre più evidenti i segnali di una illegalità diffusa, dalla occupazione indebita di strade e piazze al racket delle estorsioni, dalle assunzioni clientelari, al mercato drogato delle abitazioni di nuova costruzione.
E’ altrettanto innegabile che all’interno di vaste fasce di emarginazione e disgregazione sociale la delinquenza e la prevaricazione violenta diventano facile strumento per l’acquisizione di potere e ricchezza.
In questo clima, l’assassinio del Sindaco non è solo il gesto isolato di un folle: è il risvolto sanguinoso di una carriera affaristica cresciuta all’ombra di un sistema politico che usava e si lasciava usare: la collaborazione attiva alle campagne elettorali di noti esponenti politici locali e il monopolio detenuto da ben sette anni sugli appalti per l’organizzazione delle principali manifestazioni pubbliche sono dati di fatto che non si possono dimenticare.
Gianni Carnicella, che pure di quel sistema era parte integrante, ha forse pagato con la vita il tentativo coraggioso di invertire la tendenza. Oggi questo delitto rischia di bloccare il processo che era stato appena avviato. La paura potrebbe prendere il sopravvento.
Non dovrà essere così. Significherebbe consegnare la città e la vita di ognuno di noi al dominio dell’illegalità.
NON E’ PIU’ TEMPO DELL’INDIFFERENZA E DEL DISIMPEGNO NE’ DI RASSEGNAZIONE. MOLFETTA DEVE REAGIRE…”.

Ma il primo appello era stato già pronunciato da don Tonino Bello nella sua omelia del 9 luglio 1992.
“… È il discorso sul malessere della città. Un malessere che, in modo spesso maldestro, vogliamo rimuovere dalla nostra coscienza e del quale facciamo fatica a prendere atto, forse perché troppo fieri del prestigio del nostro passato. Un malessere che si costruisce su impercettibili detriti di illegalità diffusa, sugli scarti umani relegati nelle periferie, sui frammenti di una sottocultura della prepotenza non sempre disorganica all’apparato ufficiale.
È il discorso sulla rete sommersa della piccola criminalità che germina all’ombra di un perbenismo di facciata. Sulle connivenze col mondo della droga che ormai non risparmia nessun gonfalone. Sui rigagnoli sporchi che inquinano le falde sane di una economia costruita dalla proverbiale laboriosità dei nostri antenati, i quali hanno onorato Molfetta in tutti gli angoli del mondo.
… Sì, questa è la vera tragedia: che chi ha sparato non è un mostro. Oh, come vorremmo che fosse un mostro, per poter scaricare unicamente sul parossismo della sua barbarie le responsabilità di questo assassinio! Ma chi ha sparato non è un mostro, e neppure un pazzo e forse neppure un criminale nel senso classico del termine. Non è un mostro. E’  un nostro!  Un nostro concittadino, che, come ultima miccia, ha dato fuoco alle polveri di cui, almeno un granello, ce lo portiamo tutti nell’anima… . Ecco perché a Gianni voglio chiedere perdono anch’io, vescovo di questa città, responsabile di una Chiesa forse un po’ troppo attardata in una pastorale di contenimento e di conservazione, che stenta a uscire dai perimetri rassicuranti delle sagrestie per compromettersi con gli ultimi, ritrovando audaci cadenze missionarie, ed è ancora ben lontana dall’essere «testimonianza viva di verità e di libertà, di giustizia e di pace, perché tutti gli uomini si aprano alla speranza di un mondo nuovo»

A distanza di diciassette anni le parole di don Tonino e l’appello dei movimenti sono purtroppo ancora attuali, lo scenario sociale degradato di quegli anni è ancora vivo e il degrado morale della città è peggiorato. Le responsabilità sono diffuse ma in primo luogo c’è stata e c’è una classe politica dirigente che non ha saputo cogliere alcun insegnamento dal quel gesto estremo che vedeva da una parte l’affermazione di una cultura arrogante e dall’altra il tentativo coraggioso e solitario di un uomo che cominciava a dare segni di inversione di marcia a quel mondo politico che usava e si lasciava usare dalle facili connivenze con il malaffare.

Il 6 luglio c.a. alle 18.30, presso la “sala B. Finocchiaro”, il Liberatorio Politico incontrerà la cittadinanza per riflettere insieme sui fatti e misfatti accaduti in questi 17 anni e per affermare la necessità che la nostra comunità non può perdere la memoria di quel grave gesto avvenuto il 7 luglio 1992.

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